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cancro ovarico

Scoperto un metodo per far crescere in 3D le cellule tumorali, identificando quelle responsabili delle metastasi. L’obiettivo futuro sono i farmaci mirati, ne abbiamo parlato con gli autori

A fine novembre è stato pubblicato su Cell Death and Differentiation uno studio condotto dall’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e dell’Università Statale di Milano – con il sostegno di AIRC - sull’utilizzo degli organoidi per la ricerca sul cancro ovarico. Per la prima volta sono stati sviluppati organoidi monoclonali, cioè strutture tridimensionali derivate da una sola cellula, a partire dal liquido ascitico prelevato da pazienti con il cancro ovarico. Gli esperimenti condotti finora hanno rivelato che esistono delle differenze nella risposta ai farmaci tra le cellule metastatiche, sia tra una paziente e l’altra che tra quelle di una stessa paziente. Pur essendo ancora lontana dall’applicazione clinica, questo studio ha messo a punto una utile piattaforma per far proseguire la ricerca oncologica.

“L’interesse del nostro gruppo si focalizza sul cancro ovarico da molti anni, con il lavoro iniziato dal dottor Pietro Lo Riso – ricercatore nel mio laboratorio, l’High Definition Disease Modelling Lab, e coautore dell’articolo - che con me è stato il pioniere di questa linea di ricerca”, racconta il prof. Giuseppe Testa, Direttore del Laboratorio di Epigenetica delle Cellule Staminali e degli Organoidi all’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), Professore di Biologia Molecolare all’Università Statale di Milano e Direttore del Centro di Neurogenomica dello Human Technopole. “Sono due le motivazioni che ci hanno spinto in questa direzione: la prima riguarda le pazienti, perché questa neoplasia non ha visto avanzamenti significativi negli ultimi decenni, principalmente a causa del fatto che si scopre quando ormai è troppo tardi per intervenire efficacemente. La seconda è cercare di rispondere alle domande sull’origine e lo sviluppo del cancro ovarico, termine che viene usato anche in riferimento alla forma sierosa ad alto grado, quella più aggressiva e diffusa e oggetto di interesse del nostro studio”.

I NUMERI DEI TUMORI ALL’OVAIO

In Italia, ogni anno sono colpite dal tumore all’ovaio circa 5100 donne (dati AIRC, 2021), la diagnosi precoce è ancora difficile e questo causa un inevitabile ritardo nell’inizio della terapia. Il protagonista dello studio dell’IEO è il carcinoma ovarico sieroso ad alto grado (HGSOC), che ancora oggi è una sfida in oncologia a causa della sua rapida evoluzione e della mancanza di modelli umani significativi per lo studio della patogenesi della malattia. È uno dei tumori ginecologici più letali: il fallimento della chirurgia e della chemioterapia nell'eradicare la malattia, la conseguente recidiva quasi inevitabile e i progressi terapeutici molto limitati non hanno permesso un miglioramento significativo della prognosi. 

Tra i fattori che complicano la situazione c’è la posizione anatomica del tumore, che permette una facile diffusione della malattia grazie al liquido ascitico, liquido che si trova nella cavità addominale e e che trasporta le cellule tumorali verso altri organi, dando luogo alle metastasi. Nel liquido ascitico non tutte le cellule sono metastatiche, ma non è noto quali lo siano e quali no: lo sviluppo di nuovi metodi che, partendo dalle lesioni originarie del paziente, identificano e analizzano il sottogruppo di cellule che mantiene la crescita del tumore è una priorità assoluta. Gli organoidi sono una opzione utile per proseguire la ricerca nel settore.

UN MODELLO PER STUDIARE IL CANCRO OVARICO SIEROSO AD ALTO GRADO

Un primo fondamentale passo è stato fatto nel 2020 con la pubblicazione di uno studio su Genome Medicine. Il gruppo di ricerca ha dimostrato che sia l’epitelio dell’ovaio che l’epitelio della fimbria sono tessuti di origine di questa neoplasia, ma che a seconda di quale sia il tessuto implicato la paziente ha ricadute prognostiche diverse perché una forma è più aggressiva dell’altra. Come spiegato dagli stessi autori, è stato un passaggio fondamentale per sviscerare l’origine di questa neoplasia e differenziarla dalle altre forme grazie alle analisi epigenetiche.

La necessità di trovare un modello che portasse la malattia fuori dal corpo, mantenendone le caratteristiche principali, era evidente. Ci siamo quindi chiesti se fosse possibile creare degli organoidi ma in un’ottica ambiziosa, cioè derivandoli dall’ascite, la componente metastatica del tumore”, continua Testa. “L’obiettivo è di isolare le singole cellule che “nuotano” nel liquido ascitico per poi farle crescere in tre dimensioni: analizzare questi organoidi monoclonali può aiutarci a comprendere il potenziale metastatico delle singole cellule presenti nel tumore.”

Il team ha quindi messo a punto un innovativo metodo per isolare e coltivare singole cellule direttamente dall'ascite metastatica delle pazienti colpite da cancro ovarico sieroso ad alto grado, stabilendo le condizioni per la loro propagazione in culture 3D. “Riceviamo i campioni di ascite prelevata dalle pazienti direttamente dalla biobanca dell’ospedale dello IEO, poi isoliamo e preleviamo dal liquido ascitico le cellule, che vengono trasferite singolarmente in piastre da laboratorio. Il passaggio successivo è la crescita di cloni di singole cellule, a cui viene aggiunto anche il liquido ascitico”, spiega la dottoressa Bianca Barzaghi, PhD del gruppo e tra i primi autori del lavoro. “In questo modo otteniamo degli organoidi monoclonali”.

Come ormai noto da tempo, nello studio dei tumori è importante il microambiente tumorale, cioè l’ambiente in cui le cellule tumorali proliferano: la svolta di questo studio è l’utilizzo del liquido ascitico nelle colture per ricreare condizioni il più simili possibile a quelle in cui il tumore è cresciuto nell’organismo umano. Questo ha permesso di superare alcuni ostacoli riscontrati nelle colture in due dimensioni perché è stato dimostrato che l'integrazione del liquido ascitico è strettamente necessaria per consentire la crescita degli organoidi in vitro a partire da singole cellule tumorali.

OBIETTIVO FARMACI

Le colture di organoidi in 3D sono emerse recentemente come un potente approccio per studiare una varietà di disturbi e stanno contribuendo in maniera significativa al proseguimento della ricerca in molti settori, tra cui quello oncologico. “Noi abbiamo qualcosa che è rappresentativo del paziente e che ci permette di lavorare e studiare da vicino la patologia”, commenta Emanuele Villa, primo autore dello studio. “Lo sviluppo di nuovi metodi che, partendo dalle lesioni originarie, paziente per paziente, identifichino e analizzino il sottogruppo di cellule che mantiene la crescita del tumore è una priorità assoluta. Inoltre, potremmo pensare di testare il regime terapeutico all’interno del sistema in vitro per comprendere i meccanismi di chemioresistenza, oltre a studiare le dinamiche del singolo clone a livello biologico”.

Il sistema sviluppato allo IEO si presta molto bene allo studio di nuovi farmaci e permette di fare uno studio mirato su ciascuna paziente. È possibile analizzare le differenze a livello cellulare tra le pazienti ma anche tra le cellule prelevate da un singolo campione: grazie a questo metodo, proprio perché le cellule hanno potenzialità e aggressività diversa, è possibile focalizzarsi su quelle più problematiche. Il grande problema della terapia attualmente a disposizione è che, essendo parzialmente efficace, non è sempre in grado di colpire la sottopopolazione di cellule metastatiche, che quindi continua a proliferare incontrastata.

“Per ora abbiamo utilizzato gli organoidi per valutare l’effetto del carboplatino, terapia standard per il cancro ovarico. Abbiamo scoperto due cose: la prima è che il modello 3D è in grado di evidenziare una diversità cellulare che si perde se testata in 2D; la seconda è che il carboplatino ha dato risposte diverse sui diversi cloni, confermando la variabilità tra pazienti ma anche tra le cellule tumorali prelevate dalla stessa paziente”, prosegue Barzaghi.

“Gli organoidi in tre dimensioni sono emersi come strumento capace di riprodurre le caratteristiche salienti del tessuto o dell’organo di origine e di sviluppare in laboratorio sottopopolazioni di cellule che rispecchiano la complessità originaria della sede in vivo da cui derivano. - conclude Pietro Lo Riso – Questo vale anche per i tumori e apre le porte alla ricerca di farmaci innovativi e specifici, ma anche allo sviluppo di piattaforme di screening simili a questa e applicabili ad altri studi. Tutto questo sottolinea l’importanza crescente della medicina di precisione in ambito oncologico”.

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