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Alzheimer e terapia genica

Lo studio clinico è  basato sulla versione del gene APOE che potrebbe ridurre il rischio di sviluppare la malattia. La discussione durante la Brain Awareness Week

È ufficialmente stato approvato il primo trial nel quale una terapia genica sperimentale troverà impiego per trattare la malattia di Alzheimer. La notizia ha provocato un vasto eco di discussioni dal momento che, allo stato attuale delle cose, è difficile poter affermare di conoscere con certezza l’eziologia della malattia.

La malattia di Alzheimer è una condizione clinica neurodegenerativa che colpisce le funzioni celebrali danneggiando la memoria, l’intelletto e il linguaggio. La si può paragonare a un virus informatico che, una volta entrato nel nostro computer ne distrugge la memoria, riducendolo a una scatola vuota. L’Alzheimer è una delle più conosciute cause di demenza senile comportando la formazione di placche amiloidi e la comparsa di grovigli neurofibrillari, danneggiando i neuroni e, in poche parole, distruggendo l’encefalo e le sue funzioni. Più che una malattia è una piaga sociale. In America si stima che siano circa 6 milioni le persone affette, mentre in Italia il numero complessivo si attesta circa su 600 mila, pari al 4% della popolazione al di sopra dei 65 anni. Considerato che il trend demografico dei prossimi anni prevede un aumento delle fasce anziane di popolazione, i casi previsti sono destinati ad aumentare in maniera significativa.

Trent’anni fa l’Alzheimer costituiva una sorta di buco nero tanto per i pazienti, che in essa vedevano sciogliersi i loro ricordi e la loro personalità, quanto per i ricercatori, lontani anni luce dalla comprensione delle cause e, ancor più, dallo sviluppo di una terapia. Oggi sono state inserite alcune coordinate nella mappa del percorso molecolare che conduce alla diagnosi, e ciò anche grazie alla scoperta di quello che, in un articolo apparso sulla rivista scientifica Nature, Laura Spinney ha chiamato ‘il gene che dimentica’. Si tratta di APOE, un gene posto sul braccio lungo del cromosoma 19 (19q) presente in tre forme: E2, E3 ed E4. Uno studio degli anni ’90 pubblicato sulla rivista PNAS  ha messo in evidenza la correlazione tra l’espressione di E4 e l’insorgenza dell’Alzheimer. Ulteriori ricerche hanno dimostrato che i pazienti nei quali sia presente una copia del gene E4 hanno un rischio doppio di ammalarsi di Alzheimer e che il rischio aumenti fino a otto volte nel caso di pazienti con due copie del gene. Al contrario, nei pazienti in cui sia presente la forma E2 il rischio di sviluppare la malattia sembra più basso.

Le prospettive terapeutiche offerte per molte malattie dai protocolli di terapia genica hanno indotto Ronald Crystal, della Weill Cornell Medicine di New York, a progettare un trial clinico di Fase I in cui a 15 pazienti di età superiore ai 50 anni, omozigoti per la forma E4 del gene che codifica per l’apolipoproteina E, con placche amiloidi riscontrate a livello cerebrale e una malattia in stadio non avanzato, sarà somministrata il costrutto AAVrh.10hAPOE2. Si tratta semplicemente – anche se questa procedura è tutto fuorché semplice – di una copia del gene E2 (APOE2) che, grazie a un vettore virale adeno-associato (AAVrh.10h), raggiungerà le cellule del cervello e permetterà la sintesi di apolipoproteina E2 la quale, secondo quanto finora osservato, riduce il rischio di Alzheimer.

Innanzitutto, lo studio punta a valutare la sicurezza della terapia e a registrare tutti gli eventi avversi che essa comporta. In seconda battuta, i ricercatori cercheranno di stabilire la massima dose tollerabile del trattamento. Le aspettative sono ovviamente importanti: se il trattamento servirà a rallentare il decorso della malattia nei pazienti che soffrono di Alzheimer, probabilmente potrebbe giocare un ruolo importante anche nella sua prevenzione.

Ma sono molteplici gli interrogativi. In primo luogo, parlare di prevenzione prima ancora di aver individuato tutti gli effettori della sequenza causale che porta all’inesorabile comparsa dell’Alzheimer fa storcere il naso a molti scienziati. In un articolo apparso sulla rivista MIT Technology Review  Ronald Crystal afferma di volersi “tenere alla larga dal dibattito sulle cause del morbo di Alzheimer, che è diventato la ruota di una roulette multimiliardaria alla quale sia le aziende farmaceutiche che i pazienti continuano a perdere”. Infatti, negli anni sono emerse diverse ipotesi sulle cause dell’Alzheimer e tra quelle preponderanti c’è il coinvolgimento del gene precursore della beta-amiloide, posizionato a livello del braccio lungo del cromosoma 21 (21q). Crystal e il suo team di ricerca hanno deciso di ignorare l’annosa diatriba per focalizzarsi su un aspetto prettamente genetico e hanno messo sotto la lente d’ingrandimento proprio il gene protagonista dell’articolo apparso su PNAS, in cui il sequenziamento del genoma di 121 pazienti aveva permesso di osservare una inspiegabile espressione di E4 e di tracciare così la correlazione con la patologia.

 Crystal e la sua squadra affidano le loro speranze al ruolo protettivo esercitato da E2, nel tentativo di ridurre l’accumulo di placche amiloidi nel cervello dei malati. Negli individui eterozigoti, che ereditano una copia di E4 e una di E2, il rischio di incappare nella malattia scende. Per cui il razionale dello studio è di infondere i pazienti omoziogoti ad alto rischio con una terapia composta da miliardi di copie del virus caricate con il gene E2 sperando che giungano all’encefalo. Se i risultati rispecchieranno quelli visti nei modelli animali, nel liquido spinale dei pazienti sarà possibile osservare una miscela di proteine, quelle APOE2 e APOE4 ma, soprattutto, l’accumulo di sostanza amiloide nel cervello si ridurrà.

Quello progettato da Crystal è uno studio preliminare che, sulla carta, ha solide fondamenta precliniche. Se sia in grado di funzionare anche nell’uomo sarà oggetto di profonda analisi. Di certo, i pazienti che vi partecipano non ne trarranno beneficio perché, seppure moderatamente compromessi nelle loro funzioni intellettive, portano nel DNA una combinazione di geni associata al fenotipo più severo. Inoltre, il danno cerebrale da cui sono stati colpiti ha iniziato a manifestarsi anni prima rispetto al momento in cui saranno arruolati. Tuttavia, i dati ottenuti dalla loro partecipazione potranno essere d’aiuto a futuri malati, che oggi non sono nemmeno al corrente del destino che li attende. Infatti, il sequenziamento del gene APOE è un’analisi sconsigliata da molti genetisti che ritengono che l’impatto emotivo sui pazienti sia sconvolgente. Occorre essere adeguatamente supportati dal punto di vista psicologico ed estremamente preparati a ricevere una diagnosi devastante perché, ad oggi, non esiste una terapia contro l’Alzheimer.

Per il suo impatto sulla sfera fisica e sociale delle persone, la malattia di Alzheimer è corrosiva e letale almeno quanto il cancro. Medici e ricercatori in tutto il mondo stanno spendendo energie e risorse per comprenderne le cause e giungere il prima possibile a una cura e se l’Alzheimer's Drug Discovery Foundation con i 3 milioni di dollari versati a Crystal, sta concedendo il più grande finanziamento a uno studio clinico non è difficile intuire quanto si sia disposti a fare per sconfiggere la malattia in via definitiva.


Ricordiamo infine che dall'11 al 17 marzo 2019 ricorre la Brain Awareness Week (Settimana del Cervello). La sfida globale lanciata dalla Dana Alliance for Brain Initiatives dà l’opportunità di concentrare l’attenzione sulle scienze del cervello e sull’importanza della ricerca in questo ambito .In Italia la Settimana del Cervello è promossa da Hafricah.NET, portale di divulgazione neuroscientifica che da oltre dieci anni fa divulgazione dei più recenti studi del settore, attraverso la raccolta degli eventi su questo sito web.

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