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terapia genica in utero, sindrome di Leigh

Il gruppo di lavoro per la ricerca sulla sindrome di Leigh

Una ricerca condotta dall’IRCCS Besta di Milano mira a sviluppare una terapia farmacologica neonatale e una strategia terapeutica fetale per la rara malattia mitocondriale

Un ambizioso progetto: così si può definire lo studio coordinato da Dario Brunetti, biotecnologo e ricercatore del Dipartimento di Scienze cliniche e di comunità dell'Università Statale di Milano e principal investigator presso l'Istituto neurologico Carlo Besta, che vede come protagonista la sindrome di Leigh e la possibilità di testare alcuni farmaci già in uso per altre patologie (il cosiddetto drug repurpusing) nel periodo postnatale, ma anche quella - ancora più temeraria - di correggere il difetto genetico che causa la malattia agendo direttamente sul feto. Ne abbiamo parlato con il dott. Brunetti e con il prof. Nicola Persico, chirurgo fetale del Policlinico di Milano e docente di Ostetricia e ginecologia del Dipartimento di Scienze cliniche e di comunità UniMi, insieme hanno sviluppato il protocollo per la terapia genica sperimentale in utero per questa malattia mitocondriale.

QUANDO I MITOCONDRI NON FUNZIONANO BENE

I mitocondri, le famose “centrali energetiche” delle nostre cellule, hanno il ruolo fondamentale di produrre una molecola (adenosina trifosfato, ATP) in grado di trasportare e fornire alla cellula l’energia necessaria per mantenere tutte le sue funzioni. Non avere una sufficiente capacità di produrre energia si traduce in importanti problematiche per tutto l’organismo, specialmente a carico degli organi che hanno una elevata richiesta energetica come cervello, cuore e muscoli.

La sindrome di Leigh, descritta per la prima volta negli anni ’50 dallo psichiatra inglese Archibald Denis Leigh, è una malattia neurologica progressiva causata da un malfunzionamento mitocondriale e che colpisce il sistema nervoso centrale e, in particolare, cervelletto e tronco cerebrale. Generalmente i bambini manifestano i primi sintomi entro i due anni: progressivo ritardo dello sviluppo psicomotorio, ipotonia, perdita di appetito, vomito ricorrente, irritabilità, epilessia ed episodi di acidosi lattica (accumulo di acido lattico nell'organismo), con conseguenze sulla respirazione e sulla funzionalità renale. Nelle forme più gravi l’aspettativa di vita è ridotta a pochi anni, ma le conseguenze sono gravi in ogni caso.

UNA GENETICA COMPLESSA

I geni responsabili della sindrome di Leigh sono localizzati sia sul DNA mitocondriale sia in quello nucleare e sono possibili diverse modalità di trasmissione. Se il gene mutato si trova nel DNA mitocondriale, la malattia può essere trasmessa solo dalla madre; mentre se la mutazione colpisce un gene nucleare, la trasmissione può essere legata al cromosoma X (in questo caso i maschi presentano i sintomi e le femmine sono portatrici sane) oppure autosomica recessiva (in cui entrambi i genitori sono portatori sani e c’è il 25% di probabilità di manifestare la malattia per ciascun figlio/a).

Uno dei geni che più frequentemente si trova mutato nella sindrome di Leigh è il gene SURF1, un gene nucleare che codifica per una proteina mitocondriale, nello specifico un assemblatore del complesso IV della catena respiratoria”, spiega Dario Brunetti. “Infatti, il complesso proteico della citocromo-c ossidasi si assembla nel modo corretto solo quando c'è questa proteina chiamata SURF1. Se mutata, il complesso non funziona e questo si traduce in un problema bioenergetico a livello cellulare e, di conseguenza, la cellula produce meno energia. Questo è più evidente nelle cellule a più alta richiesta energetica, come i neuroni, che non riescono ad ottenere l'energia di cui hanno bisogno e degenerano”.

UN MODELLO ANIMALE PER LA SINDROME DI LEIGH

Molti aspetti dell'eziopatogenesi della malattia non sono ancora del tutto chiari e, infatti, non ci sono delle terapie farmacologiche efficaci per trattare questi pazienti”, prosegue il ricercatore. “Inizialmente la malattia si studiava in modelli cellulari in vitro - soprattutto sui fibroblasti dei pazienti - e poi si è via via passati alle cellule staminali pluripotente indotte (iPSC) e alla creazione di organoidi. Negli ultimi 20 anni ci si è concentrati principalmente sui modelli animali come C. elegans (un piccolo verme cilindrico), Drosophila melanogaster (il moscerino della frutta) e Mus musculus (il topo comune), ma nessuno è stato in grado di riprodurre gli aspetti neurologici della malattia nell’uomo. Da un po’ di anni il mio gruppo ha iniziato a studiare la malattia sul suino, che è più simile all’uomo dal punto di vista anatomico, fisiologico e metabolico”.

Tra il 2014 e il 2018, infatti, il dott. Brunetti ha lavorato a Cambridge sotto la guida del prof. Massimo Zeviani (ora Direttore Scientifico dell’IRCCS Burlo Garofolo di Trieste), dove hanno creato un modello di suino in cui SURF1 è stato mutato tramite editing genomico. Caratterizzando i sintomi presenti nel modello animale, i ricercatori si sono accorti che, oltre a tentare un approccio farmacologico, si poteva iniziare a pensare a una terapia da somministrare già durante la fase di sviluppo in utero. “Insieme all'équipe del professor Nicola Persico abbiamo fatto delle misure di biometria fetale in differenti momenti durante la gravidanza ed effettivamente abbiamo notato che un problema di crescita parte già dai primi stadi dello sviluppo”, prosegue Brunetti. “In parallelo, Alessandro Prigione - Professore di pediatria delle malattie metaboliche all’Università di Düsseldorf e partner del progetto - ha utilizzato le iPSC derivate dai pazienti per creare organoidi e ha confermato le conseguenze della mancanza di SURF1 sul neurosviluppo. Da qui l’idea che prima si interviene e meglio è”.

Il progetto è stato sottomesso a Fondazione Telethon e ha vinto il bando Multi-round, che ha selezionato 22 programmi di ricerca in tutta Italia dedicati alle malattie genetiche rare e che ha finanziato lo studio biennale con 240mila euro. Per il trattamento farmacologico con un approccio più standard si proverà a testare una classe di farmaci inibitori dell’enzima fosfodiesterasi 5 (Pde5i) che hanno dato risposte positive in uno studio europeo su modelli in vitro, con l'obiettivo di ripristinare il metabolismo cellulare durante lo sviluppo neurologico postnatale. “In questo caso la terapia partirà alla nascita e prevederà l’uso del sildenafil (un inibitore di Pde5i), identificato tramite uno screening di molecole in grado di stimolare il neurosviluppo. La molecola è stata usata per il trattamento di altre malattie nei neonati e quindi sono già state registrate alcune informazioni sulla sicurezza. Non è però mai stato usato per questa malattia e verrà comunque testato sui modelli animali”, continua il ricercatore. “Da un paio di anni il gruppo del Prof. Prigione insieme al Prof. Markus Schuelke a Berlino hanno avviato studi compassionevoli con il sildenafil su pazienti affetti da sindrome di Leigh in forma non grave arrivati all’età adolescenziale, anche se con una qualità di vita compromessa, ottenendo dei miglioramenti significativi”. Recentemente, grazie a questi studi, il sildenafil ha ricevuto la designazione di Farmaco Orfano per la sindrome di Leigh.

TRASPORTARE IL GENE CORRETTO AL FETO

Per quanto riguarda la terapia genica fetale da somministrare in utero (ne abbiamo già parlato qui e qui), sviluppata da Brunetti e Persico, il principio è quello di risolvere il difetto genetico all’origine, trasportando una versione corretta del gene nel feto – quindi prima della nascita - tramite un'iniezione eco-guidata in utero. Questo permetterebbe di ripristinare la funzionalità del gene durante lo sviluppo e prima che i processi patologici diventino irreversibili. “Abbiamo iniziato a mettere a punto questa tecnologia un paio di anni fa, avevamo vinto insieme un primo finanziamento dalla Fondazione Regionale per la Ricerca Biomedica che ci ha finanziato uno studio pilota, sempre sui suini, per studiare come trasportare materiale genetico al feto. Abbiamo fatto vari esperimenti a diverse epoche gestazionali, utilizzando quantità di vettori virali diverse perché dovevamo capire qual era il dosaggio migliore e il momento più adatto a intervenire. Recentemente abbiamo ottenuto i primi risultati che ci hanno permesso di mettere a punto il protocollo”, conclude Brunetti.

Questa idea ci è venuta più di 20 anni fa, quando studiavamo entrambi a Bologna - io biotecnologie e Persico medicina – e una sera in un pub chiacchieravamo sulle future possibili innovazioni biomediche. Negli anni ci siamo persi, ma nel 2018 ci siamo ritrovati entrambi a lavorare in Statale a Milano e abbiamo deciso di rispolverare quell’idea, ormai quasi sepolta nella nostra memoria”. L’idea di correggere una malattia fin dalle sue origini genetiche è qualcosa di estremamente affascinante. Anche se al giorno d’oggi sono diverse le patologie che possono essere trattate con la terapia genica, andare ad agire direttamente in utero è quasi fantascienza. Eppure gli studi procedono e, tra questi, anche quello sulla sindrome di Leigh.

Rispetto al lavoro che è stato già fatto, io entro in campo nel momento in cui bisogna far arrivare un farmaco al feto”, interviene il prof. Persico. “L'incontro culturale che c'è stato con il dottor Brunetti - al di là dei nostri trascorsi bolognesi - è stato proprio quello di cercare di trovare un approccio terapeutico che poi, sperando che i risultati ci diano ragione dal punto di vista dell'efficacia e nella sicurezza, sia spendibile e traslabile sulle gravidanze umane in modo non troppo invasivo, che non preveda di dover aprire l’addome ma si limiti a una iniezione”.

La terapia in utero è una pratica clinica che viene applicata già oggi nelle gravidanze umane. Un esempio sono i casi di anemia fetale o di patologie ematologiche in cui è necessaria una trasfusione di sangue in utero, come nelle varie incompatibilità di gruppo sanguigno tra la madre e il feto. Questo viene fatto tramite iniezioni eseguite sotto la guida di un ecografo, che permette di arrivare al cordone ombelicale o ai ventricoli cardiaci del feto.

“Dal punto di vista più tecnico, diciamo che il tipo di approccio che cerchiamo di utilizzare nello studio è molto simile a quello che poi si potrà usare sulle gravidanze umane se lo studio dovesse portare a risultati concreti”, chiarisce Nicola Persico. “Purtroppo, si tratta di situazioni abbastanza al limite: oltre alla parte interventistica e terapeutica, stiamo cercando di creare un po' di sensibilizzazione sulla diagnostica, perché le malattie mitocondriali non sono oggetto di test prenatali. Dal punto di vista medico è importante cercare di capire quali possono essere dei segnali prenatali che si possono manifestare per sospettare una diagnosi di quel tipo, così da fare le analisi necessarie per arrivare alla conferma diagnostica. Altrimenti parliamo di terapie che difficilmente potranno essere utilizzate sulle gravidanze in corso e a quel punto se ne potrà parlare solo nel caso di nuove gravidanze in famiglie che già hanno avuto un caso confermato, come accade spesso nel caso di malattie genetiche rare. Poi le famiglie dovranno decidere se intraprendere il percorso della terapia in utero: il lavoro quotidiano della mia équipe è anche quello di avere a che fare con l'ipotesi di interventi di chirurgia fetale, dell'inevitabile attesa e delle cure post-natali, oppure dell'interruzione di gravidanza, entro determinati limiti. Questo è un altro nodo abbastanza critico che ovviamente può condizionare l'applicabilità di questo tipo di approcci. Al di là di questo, speriamo di ottenere un risultato concreto nei prossimi anni”.

Tutto questo è possibile anche grazie alla collaborazione con il Laboratorio di Tecnologie della Riproduzione di Avantea, che si trova a Cremona. Un laboratorio che si occupa di clonazione e di produzione di animali di grossa taglia transgenici, in cui avverrà la generazione nelle scrofe delle gravidanze con embrioni portatori della sindrome di Leigh.

Con il contributo incondizionato di

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