TIL, Steven Rosenberg, tumore

Pioniere della ricerca è stato Steven Rosenberg, sempre fiducioso nelle potenzialità di un approccio che ha ricevuto una prima approvazione contro il melanoma: OTA ne ripercorre la storia

Se le terapie avanzate potessero essere descritte come un gruppo coeso, magari come la nazionale di calcio o la pattuglia acrobatica italiana, ad ognuno degli elementi che le rappresenta sarebbe attribuito un ruolo definito perché in entrambi gli esempi alla base del successo si trova una fine ed elaborata forma di gerarchia. In certi settori è arduo ragionare in questa ottica ma, immaginando la terapia genica classica come il capitano della squadra e le CAR-T come un centravanti, potremmo pensare che le terapie cellulari come i linfociti T infiltranti il tumore (TIL) siano il trequartista, ovvero la figura che si colloca subito dietro l’attacco e guida il centrocampo. Oggi, infatti, i TIL si avviano a essere una realtà ma la storia di questi trattamenti dura da oltre cinquant’anni e il cammino verso il loro utilizzo in clinica non è stato affatto lineare.

La rivista Nature ha pubblicato un articolo che racconta l’impatto di una terapia a base di linfociti infiltranti il tumore sui protocolli di cura di tumori solidi come il melanoma. E non è un caso, poiché le prime ricerche condotte da Steven Rosenberg - oncologo statunitense a capo del reparto di chirurgia presso il National Cancer Institute di Bethesta e considerato uno dei padri dell’immunoterapia - riguardarono proprio il melanoma che in Italia, secondo i più recenti dati AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori), rappresenta il terzo tumore più frequente in entrambi i sessi al di sotto dei 50 anni. “Il melanoma è un tumore caratterizzato da un elevato carico mutazionale”, spiega la professoressa Chiara Bonini, Ordinario di Ematologia all’Università Vita-Salute San Raffaele e responsabile dell’Unità di Ematologia Sperimentale dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. “Ciò significa che nel corso dei processi di moltiplicazione e divisione cellulare che ne determinano l’espansione, il melanoma sforna nuove mutazioni le quali, a loro volta, implicano la produzione di proteine diverse da quelle riconosciute dal sistema immunitario. Tali proteine aberranti costituiscono potenziali antigeni contro cui sono dirette alcune componenti del sistema immunitario”. Il melanoma è, dunque, un tumore molto immunogenico e Rosenberg immaginò di sfruttare questa caratteristica per sollevare contro di esso la risposta da parte del sistema immunitario.

A instillargli nella mente il seme di questa “folle” idea fu l’incontro con un paziente di 63 anni giunto alla sua osservazione in seguito alla comparsa di forti dolori al quadrante superiore destro dell’addome. La causa sembrava essere un’infiammazione della cistifellea provata da calcoli biliari per cui si rendeva necessaria la rimozione chirurgica della cistifellea. Tuttavia, sfogliando la cartella clinica del paziente, Rosenberg apprese che dodici anni prima all’uomo era stata asportata gran parte dello stomaco a causa di un cancro particolarmente aggressivo. I medici del West Roxbury VA Hospital di Boston avevano riscontrato la presenza di metastasi a livello del fegato e di diversi linfonodi e avevano comunicato al paziente che la sua situazione era disperata e non c’era altro da fare. Tuttavia, al primo controllo dopo le dimissioni le condizioni dell’uomo sembravano esser migliorate. A dodici anni di distanza da quel momento l’uomo non solo non era morto ma si era nuovamente rivolto all’ospedale per un problema di ordine differente. E, cosa ancora più sorprendente, nel corso dell’intervento per la rimozione della cistifellea a cui fu sottoposto non emerse alcuna traccia del cancro. “In qualche modo, il tumore aveva subito una regressione completa in assenza di trattamento, uno degli eventi più rari osservabili in medicina”, ricorda Rosenberg. “Sembrava quasi che il suo sistema immunitario avesse riconosciuto il cancro come estraneo e lo avesse combattuto fino a distruggerlo”. Fu quel caso a indurre Rosenberg verso un esperimento piuttosto semplice che consisteva nell’effettuare delle trasfusioni di sangue a un paziente malato da uno sano. La persona in questione, un veterano di guerra affetto da un cancro terminale dello stomaco, morì ugualmente ma Rosenberg non si diede per vinto.

Nel 1974, quando era a capo della Divisione Chirurgica del National Cancer Institute (NIH), Rosenberg era già fermamente convinto della possibilità di sfruttare il sistema immunitario per contrastare il cancro. E ciò a dispetto della posizione scientifica condivisa da vari colleghi che avevano una visione diametralmente opposta alla sua (in un articolo dell’epoca si affermava che non “era mai stata dimostrata alcuna risposta immunitaria in reazione a un cancro spontaneo negli animali o nell’uomo”). Nonostante le difficoltà di far crescere i linfociti in coltura, Rosenberg proseguì le ricerche giungendo ad avvalersi delle proprietà dell’Interleuchina 2 (IL-2) per farli crescere in vitro e osservarne il comportamento, per poi somministrarli ai maiali affinché potessero combattere le colonie tumorali. “Le cellule del sangue periferico, coltivate in IL-2 per un breve periodo di circa tre giorni, sviluppano la capacità di uccidere le cellule tumorali nelle colture in vitro”, ricorda ancora Rosenberg. “L’IL-2 era una delle tante citochine note, quindi abbiamo rinominato le nostre cellule LAK, Lymphokine-Activated Killer, e sulla base di questa loro proprietà, abbiamo iniziato gli studi sui topi per vedere se erano in grado di uccidere il tumore nei modelli in vivo”. Gli esiti degli esperimenti confermarono l’efficacia delle cellule LAK ma le risposte prodotte dalle successive somministrazioni agli esseri umani furono deludenti.

All’inizio del 1984 Rosenberg aveva trattato 26 pazienti affetti da cancro in metastasi e in tutti la terapia non aveva funzionato: le cellule cancerose avevano continuato a moltiplicarsi e i pazienti erano andati incontro a morte. A questo punto qualcuno avrebbe potuto rinunciare ma non Rosenberg che credeva che la stimolazione con i linfociti T potesse attivare la risposta da parte di cellule con spiccate proprietà antitumorali in grado di aggredire e distruggere il cancro. Rosenberg proseguì gli esperimenti arrivando a trattare 76 pazienti senza successo - anzi sbattendo duramente contro il problema della tossicità dei trattamenti giacché molti svilupparono la cosiddetta sindrome da rilascio delle citochine (CRS).

Il punto di svolta del percorso fu una donna di trentatré anni, Linda Taylor, affetta da una forma di melanoma molto aggressiva e già in metastasi. Rosenberg le somministrò i LAK, vale a dire i linfociti coltivati in provetta, con l’aggiunta di IL-2 alla massima dose possibile. Linda sviluppò una lunga coda di sintomi tra cui febbre, difficoltà respiratorie e problematiche renali. Finì in terapia intensiva ma si riprese e nelle successive visite di controllo le sue condizioni migliorarono. E soprattutto, l’analisi dei prelievi bioptici rivelò che il cancro era definitivamente sparito. “Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso si è cominciato a intravedere la possibilità di usare i linfociti del paziente per combattere il cancro”, precisa Bonini. “E più tardi si è fatta largo l’ipotesi di traslare quell’esperienza anche ad altri tipi di tumore. Ma restavano molte zone d’ombra da esplorare”.

Infatti, mentre il caso di Linda Taylor stava diventando un clamore e la fama di Rosenberg si diffondeva dentro e fuori dagli ambienti scientifici, accadde quello che nessuno avrebbe mai voluto: un giovane di 24 anni affetto da melanoma metastatico morì in seguito alla somministrazione dei linfociti addizionati con interleuchina-2. Viste le sue condizioni il ragazzo sarebbe morto comunque ma il suo caso sollevò non pochi dilemmi. Sembrava, infatti, che la terapia di Rosenberg producesse due esiti ben distinti: o la guarigione o una serie di eventi avversi che portavano al decesso. Non era una posizione semplice. “Con il tempo i ricercatori hanno imparato a gestire le tossicità e gli avventi avversi di trattamenti come questo o le CAR-T”, commenta Bonini. “Inoltre, al tempo furono allargati i criteri degli studi clinici per testare la terapia. Coltivare i linfociti T in provetta non era semplice e a quei tempi non circolavano molte nozioni di base riguardanti la loro stessa specificità d’azione. Infine, spesso il carico di mutazione dei tumori era troppo basso o i linfociti infusi esaurivano presto la loro attività”.

Rosenberg e i suoi collaboratori andarono avanti con le ricerche e notarono che la combinazione di LAK e IL-2 produceva una regressione tumorale nel 15-20% circa dei pazienti con melanoma e cancro del rene. Ma solo in circa un terzo di essi si osservavano regressioni complete. Perciò decisero di avviare uno studio prospettico randomizzato su 97 pazienti con tumore del rene in metastasi e 54 pazienti con melanoma, trattandoli con IL-2 con o senza le cellule LAK. Scoprirono così che a mediare le regressioni tumorali era l’IL-2 che da sola era in grado di stimolare i linfociti esprimenti il suo recettore. A questo studio ne seguirono altri con un numero sempre maggiore di pazienti e ben presto i dati di efficacia furono confermati, portando  nel giro di alcuni anni all’approvazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) statunitense di un trattamento a base di IL-2 per il tumore renale metastatico e il melanoma.

Man mano che i trial clinici proseguivano Rosenberg iniziò a riflettere sulla natura del risultato ottenuto e a pensare che i linfociti di cui aveva bisogno potessero essere già presenti nello stroma dei depositi tumorali. Così si concentrò su una serie di esperimenti attraverso cui rilevare eventuali risposte specifiche da parte dei linfociti infiltranti il tumore (TIL) presenti in campioni tumorali e cresciuti per periodi prolungati con l’aggiunta di IL-2. In queste condizioni notò che - seppur in maniera non sempre costante - i TIL uccidevano solo i tumori da cui erano derivati, mostrando una specificità d’azione nei confronti degli antigeni del cancro, piuttosto che di quelli dei tessuti sani. Nel 1986 Rosenberg pubblicò quei dati sulla rivista Science spalancando i cancelli di un nuovo settore: l’immunoterapia. Nei decenni successivi questo nuovo filone avrebbe portato allo sviluppo dei farmaci a base di inibitori dei checkpoint immunitari e, ancora di più, delle terapie a base di cellule CAR-T. Altri studi, pubblicati tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta dal team di Rosenberg, mostrarono che la somministrazione di IL-2 e TIL ottenuti da pazienti affetti da melanoma metastatico produceva ampie regressioni tumorali. I dati accumulati sono stati determinanti per lo sviluppo di nuove e promettenti terapie basate sui TIL, la prima approvazione è arrivata negli Stati Uniti lo scorso febbraio.

“L’ingegnerizzazione dei linfociti T con TCR o tramite espressione del recettore CAR ha allargato i confini dell’immunoterapia e permesso di superare molte delle iniziali difficoltà sperimentate da Rosenberg, finendo per mettere a disposizione dei medici approcci terapeutici sempre più mirati contro il cancro”, conclude Bonini. “La promessa dell’ingegnerizzazione genetica dei linfociti è di rendere anche altri tumori sensibili all’immunoterapia cellulare, alimentando un filone di ricerca che lo stesso Rosenberg ha contribuito a creare”.

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