Un team di ricerca dell’Università della California ha messo a punto un sistema per dirigere i linfociti T in maniera mirata contro le cellule del tumore evitando di danneggiare i tessuti sani
Difficile da raggiungere e ben protetto, il cervello umano rappresenta l’elaboratore di ogni esperienza e la sede di produzione del pensiero che ci identifica e caratterizza come specie. Risulta dunque naturale che un organo così prezioso sia isolato dietro una struttura - la barriera emato-encefalica (BEE) - che regola in maniera selettiva il passaggio di sostanze da e verso di esso. Tuttavia, l’esistenza stessa della BEE implica una maggior difficoltà di far arrivare molecole terapeutiche alle strutture dell’encefalo quando queste sono prese di mira da forme neoplastiche aggressive, come il glioblastoma. Un tale vincolo interessa anche i trattamenti più innovativi - fra cui le CAR-T - ma alcuni ricercatori dell’Università della California hanno forse trovato il modo di aggirare l’ostacolo, la strategia è stata descritta in un articolo pubblicato su Science a fine 2024.
L’idea di sfruttare le cellule T in maniera che, superando la barriera emato-encefalica, possano colpire selettivamente le cellule tumorali riducendo al minimo gli effetti tossici del trattamento non è nuova, ci stanno lavorando diversi team di ricerca e la sfida che tutti devono affrontare è l’individuazione del bersaglio giusto a cui puntare. Diversi sono i filoni di ricerca finora esplorati ma quello portato avanti dagli scienziati californiani si basa su una strategia molto avvincente: lo sviluppo di una sorta di sistema “GPS” attraverso cui le cellule vengono guidate direttamente sul loro bersaglio. In determinate condizioni patologiche - nei tumori del cervello, nelle malattie neurodegenerative o in caso di infiammazione diffusa - i linfociti T sono in grado di attraversare la BEE e perciò i ricercatori hanno pensato di rivolgere questa loro proprietà contro le cellule malate: ingegnerizzando i linfociti T si potrebbe spingerli ad attaccare il tumore e, quindi, debellarlo. Il nodo cruciale dell’operazione consiste nel mettere a puto la modalità più efficace - e soprattutto sicura - di realizzare questo passaggio.
Il team statunitense ha apportato una serie di modifiche ai linfociti T in maniera da farli produrre un recettore di sintesi, capace di riconoscere un antigene localizzato normalmente nella matrice extracellulare del cervello. Ciò ha attivato un circuito che stimolava la produzione di recettori chimerici dell’antigene con cui uccidere le cellule tumorali nel cervello: in un modello di topo è stata, infatti, osservata la produzione di una citochina infiammatoria che ha distrutto le cellule tumorali in maniera altamente selettiva. Un risultato che ha suscitato un’ondata di entusiasmo. Ma nello specifico come è stato possibile realizzare ciò?
Il punto di partenza sono stati i database bioinformatici disponibili in forma pubblica che i ricercatori hanno consultato allo scopo di identificare dei ligandi extracellulari, specifici del sistema nervoso centrale ed espressi in condizioni normali: sono questi ad aver fatto da “GPS” alle cellule immunitarie nel cervello. Di tali marcatori il più rilevante era brevican (BCAN), una proteina della matrice extracellulare sfruttata per il riconoscimento tessuto-specifico. Poi i ricercatori hanno cercato degli anticorpi diretti contro gli antigeni come brevican e li hanno usati per costruire i recettori Notch sintetici attivati dal sistema nervoso centrale (il sistema è noto come synNotch), i quali hanno dato il via alla produzione di citochine in risposta al legame con l’antigene extracellulare. In pratica hanno sviluppato un sistema a doppio segnale: da un lato la proteina brevican - che concorre unicamente alla formazione della struttura gelatinosa del cervello - e dall’altro altre due proteine espresse nella maggior parte dei tumori cerebrali. L’attacco alle cellule tumorali si realizza unicamente quando le cellule immunitarie riconoscono entrambi i segnali in successione.
Successivamente, è stata testata l’efficienza del sistema in un modello murino di glioblastoma osservando come le cellule immunitarie, una volta raggiunto il cervello, siano riuscite ad eliminare senza difficoltà il tumore, mentre quelle rimaste nel flusso sanguigno non si sono attivate. A distanza di oltre tre mesi, nuove cellule tumorali sono state introdotte nel cervello dei topi e le cellule immunitarie residue sono state in grado di scovarle e ucciderle, a riprova della buona capacità del sistema di prevenire la recidiva tumorale. Infine, i ricercatori hanno modificato questo sistema di “GPS” molecolare affinché le cellule fossero in grado di veicolare molecole antinfiammatorie al cervello in un modello murino di sclerosi multipla, osservando come ciò abbia funzionato perfettamente, abbassando il livello di infiammazione.
Le conclusioni del lavoro pubblicato su Science mettono in rilievo una specificità che si spalma su due livelli: da una parte l’induzione avviene solo nelle cellule del sistema nervoso centrale e dall’altra quello che gli autori chiamano il carico (in originale “payload”) costituito dall’antigene CAR o da una citochina (hanno usato l’interleuchina-10, IL-10) dimostra di possedere un’alta specificità nel colpire l’obiettivo.
“I risultati ottenuti suggeriscono che queste cellule potrebbero essere utilizzate come piattaforma ad ampio raggio per trattare un insieme eterogeneo di malattie del sistema nervoso centrale, tra cui tumori primitivi e metastasi cerebrali, neuroinfiammazione e neurodegenerazione”, hanno concluso gli autori. Inoltre, il sistema concepito per prendere di mira specificamente le cellule cerebrali potrebbe trovare applicazione anche ad altri tessuti, portando - si spera - alla realizzazione di nuove e più specifiche forme di trattamento per ulteriori tipi di tumore.
Attualmente però questa tecnologia ha prodotto ottimi risultati solo nei topi e la strada verso l’applicazione clinica rimane perciò ancora lunga, anche se all’Università della California prevedono di effettuare i primi test in una sperimentazione clinica sull’uomo entro il prossimo anno. Un traguardo che Osservatorio Terapie Avanzate terrà bene d’occhio.