Prof. Auricchio e team

La strategia è stata ideata da un team di ricercatori italiani del Tigem di Pozzuoli e testata in studi preclinici.

È impossibile non restare a bocca aperta davanti alle abili acrobazie dei jet della Pattuglia Tricolore ma è inevitabile che per il trasporto di merci siano necessari aerei di grosse dimensioni e dalla stazza mastodontica. La ricerca dell’equilibrio tra agilità e capacità di carico non ha spinto solo l’industria aeronautica sulla via del progresso ma sta guidando il cammino anche dei ricercatori che si occupano di terapia genica. Consci che i vettori virali, fondamentali per lo sviluppo di nuove terapie, debbano da una parte essere in grado di raggiungere con agilità i siti di destinazione, dall’altra essere dotati della capacità di farsi carico delle copie funzionali dei geni difettosi. E le copie - o le informazioni necessarie per assemblare le proteine mancanti - sono voluminose e richiedono spazio.

I ricercatori dell’Istituto Telethon di Pozzuoli, guidati dal prof. Alberto Auricchio, professore di Genetica Medica all’Università “Federico II” di Napoli, hanno lavorato sulla possibile soluzione per rimuovere l’ostacolo sul cammino della terapia genica, pubblicando i risultati della loro ricerca contro le forme ereditarie di cecità sulla rivista Science Translational Medicine. Le cecità ereditarie sono causate, nella maggior parte dei casi, da alterazioni di geni che codificano per proteine localizzate nei fotorecettori, le cellule nervose dell’occhio responsabili della visione. La terapia genica rappresenta una delle strategie più promettenti per queste forme di cecità. Gli studiosi napoletani ricordano come la prima terapia genica contro l’amaurosi congenita di Leber sia stata approvata negli Stati Uniti solo due anni fa e che l’anno scorso abbia ricevuto l’ok anche dagli enti regolatori europei. A testimonianza del grande valore da essa rivestito nel combattere una patologia che colpisce quasi 200.000 persone solo in Europa. Dal 2017 altre terapie sono in via di sviluppo per contrastare le forme ereditarie di cecità, ma il principale problema che i gruppi di studio hanno dovuto affrontare è sempre stato legato alle capacità dei vettori virali adeno-associati (AAV) di trasportare sequenze di DNA di dimensioni superiori a 5 kb e gli elementi necessari perché esse possano essere espresse. E, purtroppo, molti dei “geni terapeutici” necessari sono di grandi dimensioni. Per aumentarne la capacità di carico si è pensato di usare più vettori virali, ognuno dei quali in grado di trasportare una parte dell’informazione genetica necessaria per correggere la mutazione, ma, purtroppo, così facendo l’agilità per raggiungere i fotorecettori e l’efficienza di trasfezione diminuivano in maniera sensibile.

“Uno dei punti di forza dei vettori AAV per la cura di malattie umane è che sono piccoli e diffondono bene attraverso i vari tessuti” – spiega Auricchio – “Questo è però anche un limite, dal momento che essendo piccoli trasportano una limitata quantità di DNA che non ci permette di utilizzarli così come sono per il trasporto di geni di grosse dimensioni, come per esempio quelli responsabili della malattia di Stargardt o di altre forme di amaurosi di Leber. Per questo da diversi anni siamo al lavoro per studiare come risolvere il problema: in questo caso ci siamo ispirati a un sistema tipico degli organismi unicellulari come le alghe cianobatteri, che attraverso un meccanismo di ‘taglia e cuci’ producono proteine lunghe a partire da precursori più corti”.

Il meccanismo di ‘taglia e cuci’ di cui parla il prof. Auricchio sfrutta le proprietà delle inteine, che possono essere considerate come una sintesi di due proteine dallo stesso gene. I ricercatori guidati da Auricchio hanno sviluppato dei vettori AAV in grado di trasportare ciascuno una porzione di proteina, che tutta intera è di grandi dimensioni e non troverebbe spazio all’interno di un unico vettore. A questo punto, grazie all’azione delle inteine, le diverse parti della proteina possono essere riassemblate insieme come pezzi di un puzzle fino a formare una proteina intera e funzionale. E tutto questo può avvenire direttamente nella retina dei pazienti. “Con questo sistema siamo riusciti a ripristinare in modo efficiente la produzione della proteina mancante in modelli murini di cecità ereditaria come la malattia di Stargardt o la amaurosi di tipo 10, che si è tradotta in un significativo ripristino della capacità visiva” - spiegano la dott.ssa Patrizia Tornabene e la dott.ssa Ivana Trapani, prime autrici del lavoro - “Il sistema si conferma quindi promettente per trasferire geni di grosse dimensioni, ovviando a un ostacolo tecnico che fino ad oggi ha precluso l’applicazione della terapia genica in molte malattie genetiche incurabili”.

Il risultato in studi preclinici ha messo in luce i vantaggi di questo nuovo approccio, decisamente superiore a quello che prevede il ricorso a più vettori virali. La quantità di proteina EGFP espressa a livello delle retina in vitro e in vivo nei modelli murini e suini è stata di gran lunga superiore al corrispettivo prodotto con l’ausilio di multiple copie dei vettori AAV. Le inteine riescono a legare frammenti di proteine in punti diversi, riducendo in maniera sensibile il carico dei vettori AAV che, in tal modo, divengono dei veri e proprio caccia bombardieri, cioè degli aerei a reazione agili come i caccia militari ma capaci di trasportare un più consistente carico di armamenti. Grazie all’ingegnoso meccanismo di ‘taglia e cuci’, le inteine riescono a produrre una proteina “compressa” che può essere allocata all’interno dei vettori AAV ed essere pertanto espressa direttamente a livello delle cellule retiniche dove può meglio svolgere il suo effetto. Il lavoro dei ricercatori del Tigem di Pozzuoli dovrà trovare ulteriori conferme, specie riguardo alla stabilità della proteina prodotta, ma la soluzione all’annoso problema della capacità di carico dei vettori AAV sembra davvero vicina.

“Stiamo testando la possibilità di applicare questo sistema a proteine e malattie che colpiscono tessuti al di fuori della retina, per esempio il fegato dove anche il sistema sembra promettente. Inoltre stiamo cercando di avanzare i nostri studi nella retina per la malattia di Stargardt dal laboratorio al letto del paziente” - concludono gli autori - “Presumibilmente questo passaggio richiederà delle collaborazioni industriali, considerati i costi elevati di questi aspetti di ricerca traslazionale”. Un aspetto che non spaventa i ricercatori napoletani, che sanno di aver forse trovato la via per attaccare le cecità ereditarie ricorrendo alle giuste armi.

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